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VACCINO ANTI COVID TRA OBBLIGO E LIBERTA’

Il presente contributo intende analizzare la situazione di evidente controsenso che stiamo vivendo: siamo insofferenti alle misure restrittive imposte al fine di mantenere sotto controllo i numeri della pandemia. Tuttavia, una notevole fetta di cittadini si dichiara dubbiosa all’idea di vaccinarsi.
Alla base dello scetticismo nei confronti del vaccino anti-Covid19 rileva un certo grado di sfiducia – comprensibile o no che possa essere – certamente legati ad una mancata corretta campagna di informazione di massa.
Qualche dato:
soltanto il 57% della popolazione italiana è intenzionato a vaccinarsi contro il Covid19: percentuale però davvero troppo esigua per essere efficace, posto che i virologi assumono che sarebbe necessario raggiungere almeno il 75/80% della popolazione per permetterci di arrivare alla c.d. immunità di gregge.
Il restante 43% si dice sfavorevole al vaccino o, quanto meno, scettico di fronte a questa possibilità.
A questo punto, dobbiamo soffermarci sui molteplici fattori che preoccupano i cittadini.
Dai dati, infatti, emerge che, tra i più scettici verso il vaccino anti Covid19 vi sono le donne e le fasce più giovani, fino ai 40 anni. Decisamente intenzionati a vaccinarsi risultano essere invece gli over 60 (circa il 75%) ovvero i più colpiti dal Covid19.
I soggetti depressi: altra fascia di cittadini che esprime dubbi verso la possibilità di vaccinarsi +
Soggetti con sintomi ansiosi: sono preoccupati circa il fatto che i nuovi vaccini non siano stati adeguatamente testati per via della velocità della sperimentazione;
I più motivati: quelli che avvertono senso di vulnerabilità al contagio e temono il rischio infettivo cioè le persone anziane: sono i soggetti più motivati e meno scettici della media rispetto alla sperimentazione dei nuovi vaccini.
In linea generale, però, si percepisce un clima di sfiducia nei confronti della scienza.
Da qui nasce la necessità urgente di una efficace campagna di informazione sull’importanza della profilassi volta ad inquadrare la vaccinazione nell’ambito di un processo di prevenzione, così che vi sia un conseguente aumento di accettazione spontanea dei cittadini.
Consideriamo che la convivenza con il Covid19 sarà lunga e la dimensione della responsabilità personale nell’aderenza alla prevenzione risulterà cruciale.
Ciò premesso, affrontiamo la tematica della:
NON OBBLIGATORIETA’ DEL VACCINO ANTI-COVID19
Il Ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato che le vaccinazioni anti Covid19 saranno gratuite e non obbligatorie; scelta, questa, improntata sulla “tolleranza” ma anche coerente con il nostro ordinamento che non prevede alcun obbligo vaccinale a carico degli adulti.
Questo che affrontiamo è un tema interdisciplinare molto complesso: si intersecano le argomentazioni della scienza medica e i presupposti giuridici, a livello costituzionale e a livello internazionale per rendere obbligatorio questo vaccino.
LA TUTELA DELLA SALUTE NEL DETTATO COSTITUZIONALE
L’art. 2 della Costituzione delinea il diritto alla salute quale diritto c.d. a due poli: richiede cioè un continuo bilanciamento tra fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e, quindi, tra esigenze individuali e generali.
Tale bilanciamento è venuto significativamente in evidenza nell’attuale momento storico. Basti guardare alla compressione da parte del Governo di gran parte dei diritti sociali ed economici, in quanto compatibili con la situazione epidemiologica, in nome della salute pubblica davanti all’interesse del singolo individuo.
Al quesito sulla sussistenza o meno della facoltà delle autorità di imporre coattivamente un trattamento sanitario, risponde il comma 2 dell’art. 32 della Costituzione, nell’ammettere esplicitamente questa eventualità.
Ne sono un esempio: il T.S.O., previsto e disciplinato dalla Legge 23 dicembre 1978 n. 833; l’attuale normativa in materia di vaccinazioni, D. L. del 7 giugno 2017 n. 73, il quale prevede un obbligo vaccinale per 12 malattie considerate ad alto rischio epidemico per i minori di età compresa tra zero e sedici anni.
In questi casi però il sistema sanzionatorio si giustifica:da una parte per la minore capacità di autodeterminazione di tale categoria di individui; da un’altra parte per l’abbassamento della percentuale di popolazione vaccinata che imponeva misure urgenti volte ad evitare scenari epidemiologici preoccupanti.
Dobbiamo anche soffermarsi sull’obbligo al rispetto due limiti invalicabili, posto dal citato comma 2 dell’art. 32: che l’obbligo di vaccinarsi venga disposto da una legge, e che lo stesso sia rispettoso della dignità e della libertà dell’uomo.
Esiste un consolidato orientamento, non solo legislativo ma anche giurisprudenziale, che reputa le vaccinazioni assolutamente non lesive ai sensi dell’art. 32 comma 2, ma anzi necessarie per la tutela della collettività.
Cito, ad esempio, la sentenza 5/2018 della Corte Costituzionale, con la quale si affermava che: “La legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche preservare lo stato di salute degli altri se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di cui colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili.”.
Quale sintesi delle numerose pronunce in merito, cito il parere n. 2065 del 26 settembre 2017 con cui il Consiglio di Stato ha ribadito il concetto secondo cui: “la Costituzione non riconosce un’incondizionata e assoluta libertà di non curarsi o di non essere sottoposti trattamenti sanitari obbligatori (anche in relazione a terapie preventive quali sono i vaccini), per la semplice ragione che, soprattutto nelle patologie ad alta diffusività, una cura sbagliata o la decisione individuale di non curarsi può danneggiare la salute di molti altri esseri umani e, in particolare, la salute dei più deboli, ossia dei bambini e di chi è già ammalato”.
Nello stesso parere il collegio amministrativo evidenziava che “la copertura vaccinale può non essere oggetto dell’interesse di un singolo individuo, ma sicuramente è d’interesse primario della collettività […] la sua obbligatorietà può essere imposta ai cittadini dalla legge, con sanzioni proporzionate e forme di coazione indiretta variamente configurate, fermo restando il dovere della Repubblica (anch’esso fondato sul dovere di solidarietà) di indennizzare adeguatamente i pochi soggetti che dovessero essere danneggiati dalla somministrazione del vaccino e di risarcire i medesimi soggetti, qualora il pregiudizio a costoro cagionato dipenda da colpa dell’amministrazione”.
Premesso ciò appare evidente che tali principi, da sé, farebbero propendere per una tutela della collettività e per una lettura solidaristica dell’art. 32 comma 2.
In aggiunta, si badi all’ulteriore strumento per soprassedere alla libera scelta di ogni individuo, posto a disposizione del Governo dall’art. 77 della Costituzione, e da ravvedersi nei principi di necessità ed urgenza.
L’attuale pandemia da Covid19 è, senza dubbio, un evento eccezionale che impone misure straordinarie da adottarsi in tempi ristretti per eludere, tanto una incontrollata diffusione del virus, quanto l’eccessiva compressione dello spazio riservato alle attività economiche e di relazione.
Stante la persistente e larga diffusione del Covid19, e vista la l’attuale e limitata disponibilità delle dosi di vaccino, ciò indurrebbe a seguire la stessa logica della normativa del 2017 e a decretare che la vaccinazione sia obbligatoria alla luce degli artt. 32 e 77 della Costituzione.
COME DOBBIAMO GUARDARE LA QUESTIONE DAL PUNTO DI VISTA COMUNITARIO?
L’art. 191 TFUE (ex art. 174 TCE) detta una serie di principi generali a cui le Istituzioni comunitarie e nazionali devono attenersi nel predisporre misure a protezione della persona umana.
Tra questi emerge il c.d. principio di precauzione e dell’azione preventiva, il quale – come confermato dalla Commissione Europea il 2 febbraio 2000 – deve ispirare l’azione delle autorità competenti nei casi in cui si debba intervenire per scongiurare un pericolo per la salute collettiva.
Tale principio va letto, in tal caso, con riferimento alla fase della gestione del rischio e deve condurre, nell’ottica di un bilanciamento tra prudenza e necessità di intervento, a stabilire quale sia il rischio più “accettabile” per la collettività (il c.d. male minore).
Questo tipo di valutazioni conducono a propendere, talvolta, per l’inazione, talaltra, impongono di assumere un atteggiamento proattivo, purché si agisca legittimamente e, quindi, in conformità ai criteri di: proporzionalità (al livello di protezione prescelto), non discriminazione (delle situazioni uguali tra loro), coerenza (con misure comparabili a quelle già adottate in casi equivalenti) e rivedibilità delle misure (che sino sempre rivedibili qualora divenissero inattuali o dannose).
Dal momento che, allo stato attuale delle conoscenze, non esiste il “rischio-zero” con riferimento alle conseguenze dannose di un farmaco o di un prodotto chimico, il principio di precauzione è stato fondamentale per permettere di prendere decisioni riguardo la messa o meno in commercio di determinati medicinali, vaccini compresi.
In virtù di tale lettura, il principio di precauzione potrebbe essere letto come un ulteriore incentivo per i governi ad adottare un obbligo vaccinale.
Peraltro, le cause farmaceutiche hanno pubblicamente dichiarato che i loro prodotti garantiscono un alto livello di efficacia, e i primi studi e le prime valutazioni indipendenti lo stanno confermando;
I medici e i virologi, salvo rare eccezioni, consigliano una vaccinazione su larghissima scala.
Un ostacolo in tal senso potrebbe essere l’attuale posizione dell’OMS, secondo cui non è ancora chiara né la durata né la forza degli anticorpi sviluppati dai soggetti che hanno contratto il Covid19, e, di conseguenza, ogni discorso volto a definire la percentuale di immunità di gregge da raggiungere con le vaccinazioni risulterebbe prematuro.
Ciò non esclude che, in un immediato futuro, con la validazione degli studi indipendenti che potrebbero confermare quanto dichiarato in termini di efficacia delle aziende produttrici, non ci siano governi che optino per una campagna vaccinale obbligatoria.
IL PRINCIPIO DI SOLIDARIETA’
In uno scenario pandemico, a nostro avviso, la tutela del diritto alla salute dovrebbe essere ispirata ad un principio di solidarietà che, nel bilanciamento tra libertà individuale e interesse collettivo, faccia propendere il legislatore verso quest’utimo in ogni caso.
Da qui la necessità di imporre un obbligo vaccinale, almeno per le fasce della popolazione più a rischio – personale sanitario, anziani, studenti, docenti, personale dei diversi servizi di trasporto pubblico – e per chi intende spostarsi all’estero per periodi più o meno lunghi, come d’altronde già previsto da alcune convenzioni internazionali.
Ciò sarebbe consentito dalla Costituzione e in linea con l’atteggiamento spesso “rigorista” del nostro governo, ma anche ossequioso del principio di precauzione per quanto riguarda i criteri di proporzionalità e coerenza. Nel momento in cui il legislatore promulgherà le norme relative alla vaccinazione contro il Covid-19, infatti, sarà tenuto a fornire ai consociati le informazioni necessarie e i dati relativi ai rischi e ai benefici.
Sempre in forza del principio precauzione, l’Autorità potrà rivedere le misure al progredire delle scoperte scientifiche, correggendone lacune e/o eccessi.
Sarebbe poi auspicabile che l’obbligo vaccinale fosse sancito quantomeno in un decreto legge, quale è ad esempio il d.l.73/2017, e non in un d.p.c.m., per potersi dire rispettato da un lato il principio della riserva della legge, dall’altro quello della centralità del Parlamento.
Una prescrizione che involve porzioni così omogenee della popolazione non può prescindere da un passaggio nell’organo legislativo democraticamente eletto.
In secondo luogo, per non incorrere in censure di incostituzionalità, l’obbligo dovrebbe essere accompagnato dalla previsione di un risarcimento per gli eventuali danni provocati dalla vaccinazione.
La tutela della salute pubblica attraverso simili trattamenti non esclude la lesione del diritto alla salute dei singoli, qualora essi “comportino, per la salute di quanti ad essi devono sottostare, conseguenze indesiderate, pregiudizievoli oltre il limite del normalmente tollerabile”.
In questo caso, a farsi carico dei danni (rectius: della lesione del contenuto minimale del diritto alla salute, giacché siamo fuori dall’ambito dell’art.2043 c.c.) non può che essere lo Stato, come sottolineato dalla Corte Costituzionale nella storica sentenza 307/1990, e poi cristallizzato nella Legge 25 febbraio 1992 n.210.
Infine, è necessaria una massiccia campagna di sensibilizzazione, in parte già in corso, che induca l’opinione pubblica a non considerare l’obbligo come un’imposizione autoritaria e a “raccomandare” il vaccino per le fasce non a rischio, insistendo sul fatto che, in campo medico, “raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo”.
Questo, a nostro avviso, sarebbe più importante del predisporre un apparato sanzionatorio gravoso – che non vuol dire meno controlli o meno attenzione da parte di chi deve somministrare e ricevere il trattamento.
Il fatto che esistano dei presupposti giuridici per obbligare tutta la popolazione a vaccinarsi non vuol dire che questa sia anche la scelta più giusta, anche in una situazione d’emergenza, perché tentare di correggere con la cogenza un problema che è innanzitutto culturale è sempre una sconfitta per i valori liberaldemocratici su cui è fondato il nostro Stato.
Starà poi ai singoli cittadini, in base alla propria coscienza, sensibilità e soprattutto senso di comunità, fare la cosa più giusta.
Già il Comitato Nazionale per la Bioetica, con parere del 22 settembre 1995, aveva affermato il dovere dello Stato « di promuovere le vaccinazioni considerate essenziali dalla comunità scientifica internazionale non solo attraverso campagne di informazione ed educazione sanitaria, ma anche, se necessario, con altre modalità più incisive», tra le quali anche la coercizione esplicita, proponendosi lo scopo di una protezione vaccinale sufficientemente estesa da proteggere sia i singoli soggetti, sia l’intera popolazione da rischi significativi di contagio

IL PARERE DEL COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA
«La bioetica delle vaccinazioni ci impone […] di ragionare in una prospettiva di ampio respiro, nella quale il bene di cui si va alla ricerca è insieme il bene del singolo e il bene di tutti. Questa naturalmente non è una formula magica, in grado di risolvere tutti i complessi problemi che sorgono dalla pratica delle vaccinazioni: problemi di facoltatività, di obbligatorietà e di coattività, problemi di rapporto costi-benefici, problemi di consenso, problemi di alternatività… L’essenziale, comunque, è che l’opinione pubblica acquisti la consapevolezza che mai, come nel caso delle vaccinazioni, l’atto del singolo acquista significanza solo se collocato nel quadro generale di un’azione collettiva. Ed è in questo nesso, in questa reciproca coappartenenza tra il singolo uomo e la comunità degli uomini, che il problema delle vaccinazioni, come problema bioetico, acquista tutto il suo spessore».
Sono, queste, alcune parole della presentazione del parere del 22 settembre 1995 su “Le vaccinazioni” del Comitato Nazionale per la Bioetica.
Il problema etico delle vaccinazioni è tutto qui, ma la questione è anche, e soprattutto, giuridica, di fronte al rifiuto della singola persona di vaccinarsi e all’opzione dell’obbligo di vaccinarsi imposto dalla Stato, soprattutto in una situazione epidemiologica mondiale della gravità del Covid-19 che stiamo attraversando, senza sicure prospettive di positiva soluzione.
Nella mozione su “L’importanza delle vaccinazioni” del 24 aprile 2015, il Comitato Nazionale per la Bioetica, di fronte all’allarme suscitato dalla recrudescenza del morbillo, anche in conseguenza della diminuzione della copertura vaccinale, è tornato su questo tema, richiamando, in maniera più incisiva, la responsabilità personale e sociale per assicurare una copertura adeguata per le vaccinazioni obbligatorie e per quelle solo raccomandate, senza escludere l’obbligatorietà della vaccinazione in caso di emergenza.
Questa posizione è richiamata nel recente parere del 27 novembre 2020 “I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione”, espresso sempre dal Comitato Nazionale per la Bioetica, che, pur ribadendo il rispetto dell’autonomia individuale e della spontanea adesione, non esclude un’imposizione autoritativa del vaccino, ove il diffondersi di un senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della di diffusione della pandemia lo consentano, ritenendo legittimi i trattamenti sanitari obbligatori in caso di necessità e pericolo per la salute delle singole persone e della collettività ( sul punto si possono richiamare le sentenze di Corte Cost. 22 giugno 1990, n. 307 e 23 giugno 119, n. 258).
Questo il punto centrale, che qui interessa: «Pertanto, nel caso in cui questa pandemia, che mette a rischio la vita e la salute individuale e pubblica, tanto più qualora non si disponga di nessuna cura, il Comitato ritiene eticamente doveroso che vengano fatti tutti gli sforzi per raggiungere e mantenere
una copertura vaccinale ottimale attraverso l’adesione consapevole. Nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, il Comitato ritiene inoltre che – a fronte di un vaccino validato e approvato dalle autorità competenti – non vada esclusa l’obbligatorietà, soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus. Tale obbligo dovrebbe essere discusso all’interno delle stesse associazioni professionali e dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo per la collettività».
Il perimetro costituzionale, come è stato sopra anticipato, è segnato dall’art. art. 32, comma 2, Cost., ma merita richiamare anche la l. 22 dicembre 2017, n. 219, sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (sul diritto alla libertà di cura v., tra le ultime, le sentenze di Corte Cost. 22 novembre 2019, n. 242 e 16 novembre 2018, n. 207).
Il vaccino, validato e approvato dalle autorità competenti, ora c’è, ma non c’è l’obbligo di effettuarlo, allo stato delle cose, che il governo e il legislatore non considerano una priorità.
L’obbligo di somministrare il vaccino non è (più) un problema “etico”, nemmeno per il Comitato, nei limiti sopra indicati; residua, però, il problema politico e giuridico.
A mio avviso, nella grave situazione data, il vaccino anti Covid -19 dovrebbe essere imposto obbligatoriamente, con le sole eccezioni che ne giustifichino l’esenzione per motivi di salute (non ne vedo altri, francamente, nemmeno sul piano delle convinzioni personali), anche per consentire la ripresa delle attività sociali, in senso lato, non ultima quella scolastica, a tutti i livelli, ed economiche.
Sembra davvero contraddittorio, nel comportamento governativo e parlamentare, mantenere restrizioni rilevanti, senza disporre l’obbligo della somministrazione del vaccino che ripetutamente viene salutato come la via d’uscita auspicata (e necessitata) dalla pandemia.
Quanto meno il legislatore dovrebbe porsi il problema di rendere obbligatoria la vaccinazione per i dipendenti e gli addetti alle attività essenziali che, con estrema semplificazione, sono state esentate dalla chiusura generalizzata nella prima fase, quella più acuta, della diffusione del virus.
Una scelta del legislatore che, giustamente, alcuni hanno considerato coerente con i principi enunciati dalla Corte costituzionale nelle sentenze 2 giugno 1994, n. 218 e 23 giugno 1994, n. 258, proprio nella prospettiva di evitare rischi per la salute dei terzi e per realizzare un virtuoso bilanciamento tra la salute del singolo individuo e la salute collettiva, realizzata anche, e soprattutto, dalle prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie.
Ovviamente nessun obbligo può essere imposto senza l’intervento del legislatore, come pure qualcuno ha ritenuto possibile richiamando le norme fondamentali sulla sicurezza del lavoro – prime fra tutte l’art. 2087 c.c. e del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 – nel perimetro degli obblighi non solo del datore di lavoro (art.18), ma anche dei lavoratori (art. 20).
L’intervento del legislatore, necessitato anche dalla previsione costituzionale dell’art. 32, co.2, Cost., porterebbe nell’alveo nazionale una scelta che, anche su questo specifico punto, non può essere di rango regionale.
IL CONFLITTO TRA STATO E REGIONI
Come è noto restano in gran parte irrisolti i nodi della tutela della salute nel conflitto delle competenze tra lo Stato e le Regioni in base agli artt. 32 e 117 Cost., ma anche di recente la Corte Costituzionale, con l’inedita ordinanza cautelare n. 4 pronunciata il 14 gennaio 2021, con la quale ha sospeso, per la prima volta, l’efficacia della legge “aperturista” della Regione autonoma della Valle d’Aosta ( l. 9 dicembre 2020, n.11, che dispone misure di contenimento della diffusione del virus Sars-Cov.2 nelle attività sociali ed economiche della regione in relazione allo stato di emergenza), ha confermato che la materia della profilassi internazionale, sancita dall’art. 117, c.2, lett. q, Cost., non spetta alle Regioni, nemmeno a statuto autonomo, ma rientra nella competenza esclusiva dello Stato.
Leggeremo la sentenza che sarà pronunciata a definizione del giudizio di attribuzione, ma la Corte Costituzionale, allo stato, afferma la clausola di supremazia dello Stato (contenuta nella fallita riforma costituzionale del 2016 e riproposta in alcuni progetti di riforma dell’attuale governo), congelando l’autonomia della Regione Valle d’Aosta di derogare alle misure governative anti Covid-19, con la prospettazione di un rischio di pregiudizio irreparabile all’interesse pubblico a una gestione unitaria dell’epidemia a livello nazionale.
È quanto mai opportuno che (anche) su questo fronte, quello dell’obbligo di somministrazione del vaccino anti Covid-19, non si apra un (nuovo e inedito) fronte di contrapposizione tra lo Stato e le Regioni, per l’affermazione delle rispettive competenze, a Costituzione invariata
OBBLIGO DI VACCINO E RAPPORTO DI LAVORO
Una recente ordinanza cautelare del Tribunale del Lavoro di Messina del 12 dicembre 2020 (promossa da alcuni sanitari ausiliari), che ha disapplicato il decreto assessorale regionale siciliano e le note aziendali ospedaliere di sua conseguente applicazione, che, proprio per evitare la concomitanza della “ordinaria” influenza con il contagio pandemico, avevano imposto al personale sanitario l’obbligo della vaccinazione antinfluenzale e anti pneumococcica, sul presupposto, incontestabile, che la tutela della salute è materia che la Costituzione, con l’art. 32, riserva alla legge statale.
Anche di recente, con la sentenza 6 giugno 2019, n. 137, la Corte Costituzionale ha considerato legittima solo la normativa regionale sull’organizzazione sanitaria ( l. della Regione Puglia 19 giugno 2018, n. 27, sull’esecuzione degli obblighi di vaccinazione degli operatori sanitari, impugnata dal Presidente del Consiglio dei Ministri), nella parte in cui si limita a disporre la vaccinazione del personale sanitario come condizione di accesso ad alcuni reparti, al fine di evitare il contagio anche dei pazienti; esprimendo, tuttavia, una valutazione di incostituzionalità delle vaccinazioni, solo raccomandate a livello nazionale, rese, di fatto obbligatorie a livello regionale ( sul punto richiamando la precedente sentenza 18 gennaio 2018, n. 5 che ha riaffermato la competenza statale sulla determinazione dei principi fondamentali sulla tutela della salute, con riferimento alle disposizioni del d. l. 7 giugno 2017, n. 73, conv., con mod., in l. 31 luglio 2017, n. 119, sulle vaccinazioni obbligatorie per i minori fino a 16 anni di età).
Peraltro, sul punto, occorre rimarcare, come già affermato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 137/2019 e n. 5 del 2018, che «nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici. In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo (tanto che sul piano del diritto all’indennizzo le vaccinazioni raccomandate e quelle obbligatorie non subiscono differenze: si veda, da ultimo la sentenza n. 268 del 2017)».
Ci si chiede quali possano essere le conseguenze sul rapporto di lavoro, in caso di rifiuto di vaccinarsi opposto da un dipendente, in ragione degli obblighi che il datore di lavoro ha non solo nei confronti di quest’ultimo, ma anche degli altri dipendenti e della collettività.
Prima di dare una risposta a questa domanda, ci dobbiamo però chiedere se e in quali limiti il datore di lavoro possa imporre al proprio dipendente l’obbligo della vaccinazione.
Sembra del tutto evidente che non possa farlo se non violando il principio stabilito dall’art. 32, c.2, Cost, che vieta l’assoggettamento del lavoratore a un determinato trattamento sanitario che diventerebbe, in tal modo, obbligatorio per volontà di una parte contrattuale e non della legge statale alla quale questa scelta è riservata in maniera esclusiva, come abbiamo più volte detto.
Questo, però, non risolve il problema della responsabilità del datore di lavoro e degli obblighi del dipendente nei suoi confronti.
Come anticipato sopra, si vorrebbero coniugare il principio della prevenzione con quello della solidarietà, ma è indubbio che la solidarietà, se non è imposta dalla legge, resta un mero postulato, un problema di coscienza individuale (e collettiva).
Sul piano degli obblighi della prevenzione, però, la situazione è diversa.
L’art. 2087 c.c., che, come norma residuale, ha un ambito di applicazione esteso, non arriva ad imporre al datore di lavoro di adottare misure di prevenzione, a tutela di tutti i dipendenti, non previste dalla legge e in contrasto con la Costituzione che tutela i diritti della persona; e tuttavia il datore di
lavoro deve adottare misure adeguate ed efficaci, per prevenire e limitare il rischio del contagio, imposte dalla scienza medica e dalla tecnica.
Il datore di lavoro, a mio avviso, può, anzi deve pretendere dai suoi dipendenti e collaboratori una certificazione attestante la loro avvenuta vaccinazione, assumendo le necessarie informazioni, nel rispetto della privacy sui lavoratori vaccinati e non vaccinati, per accettare la loro prestazione, in attuazione del rapporto obbligatorio in cui si realizza l’esecuzione del contratto di lavoro.
L’attività di prevenzione e controllo è prevista espressamente dall’art. 279, d.lgs. n. 81/2008, che affida la sorveglianza sanitaria al medico competente (ex art. 41), e al datore di lavoro, anche con la messa a disposizione di vaccini efficaci e con le informazioni necessarie sui vantaggi e gli inconvenienti delle vaccinazioni.
Il comportamento del lavoratore non collaborativo, ostativo, assume indubbiamente un connotato disciplinare, con tutto ciò che ne consegue, sul piano fisiologico o patologico del rapporto di lavoro.
Altra cosa è la valutazione datoriale del comportamento di chi non ha effettuato il vaccino e rifiuta la sua somministrazione. È un comportamento che non può integrare gli estremi dell’infrazione disciplinare perché è esplicazione di un diritto coperto dalla massima tutela, quella costituzionale.
A meno che, lo ripetiamo, il legislatore non adegui il decalogo delle vaccinazioni obbligatorie con riferimento alla generalità dei prestatori di lavoro o ad alcuni di essi, in considerazione della gravita della situazione epidemiologica, intervenendo, eccezionalmente, anche sulle persone adulte e capaci di intendere e di volere.
È indubbio che, nella grave contingenza nella quale ci troviamo, il datore di lavoro ha interesse non solo a che il proprio dipendente si sottoponga alla vaccinazione, così da fare tutto il possibile per realizzare la prevenzione del rischio di contagio nei luoghi di lavoro, ma deve porsi anche il problema interno alla sua organizzazione di lavoro , per evitare e limitare, nei limiti del possibile, le probabilità di assenze causate dal Covid-19, e, all’esterno, per fornire a clienti e utenti prestazioni e servizi resi da personale vaccinato, tendenzialmente immunizzato, per evitare i rischi del contagio.

Peraltro, non è detto che la vaccinazione risolva ogni problema, potendo sussistere gli obblighi, a mio avviso concorrenti con il vaccino, del referto del tampone negativo e della quarantena, nelle situazioni date (qui dovrebbero intervenire il legislatore e le parti sociali, anche con l’adeguamento dei protocolli in essere, in base a direttive e accordi-quadro).

Oggi, chi non ha avuto ancora la possibilità di vaccinarsi non può essere legittimamente allontanato dal posto di lavoro (tutto deve procedere necessariamente come prima, in base anche ai protocolli sottoscritti e alle disposizioni, anche datoriali, impartite).

Ovviamente su questo punto il legislatore può assumere una diversa determinazione, ponendosi, responsabilmente, il problema di chi, vaccinato e quasi sicuramente immunizzato, è costretto a non lavorare per evitare occasioni di diffusione del contagio e per tutelare i preponderanti interessi collettivi nel rispetto delle misure restrittive adottate dalle autorità competenti.

È il tempo della responsabilità.
Della politica, tutta, non solo del governo e del parlamento, che devono adottare scelte, anche tragiche, se necessario, nell’interesse della collettività.
Ma anche dei giuristi, che devono sapere individuare le soluzioni più appropriate, evitando di enfatizzare le libertà individuali in un contesto che richiede solidarietà e bilanciamento degli interessi.

Dott.ssa Nicoletta Scornavacca