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VINCOLO DI SANGUE QUALE ELEMENTO NON IMPRESCINDIBILE PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA LESIONE DEL RAPPORTO PARENTALE – Corte di Cassazione, III Sez. Civ., ordinanza n. 24689/2020

In passato veniva sostenuto che il danno da perdita del congiunto in conseguenza di un fatto illecito altrui (ad esempio per malpractice medica) non fosse una conseguenza immediata e diretta dell’evento lesivo e, quindi, non fosse risarcibile – in quanto danno “riflesso” – secondo quanto disposto dall’art. 1223 c.c.
Teoria, questa, poi superata attraverso il principio della “causalità adeguata”, la quale riconosce l’esistenza di un nesso tra la condotta lesiva e gli eventi prevedibili anche solo in astratto.
Nel caso di perdita di un prossimo congiunto i familiari dello stesso subiscono, anzitutto, un danno non patrimoniale che, nel nostro ordinamento, viene definito come danno da perdita del rapporto parentale.
Oggi, in tema di danno non patrimoniale da perdita di un familiare questo può essere determinato in un’unica somma comprendente sia il cosiddetto danno morale in senso stretto, derivante dalla sofferenza per la perdita del congiunto, sia il cosiddetto danno esistenziale, derivante dalla lesione del rapporto parentale e dall’incidenza che tale lesione assume sulla vita futura del congiunto superstite.
La voce di danno in questione, non trova una espressa previsione normativa ma è stata elaborata dalla giurisprudenza nel corso degli anni, e, in particolare, la Cassazione la definisce come quel danno che si concreta “nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti” (Cass. civ. Sez. III Ord., n. 9196/2018).
SOGGETTI LEGITTIMATI A CHIEDERE IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA PERDITA DEL RAPPORTO PARENTALE
Se per un verso risulta scontato riconoscere la risarcibilità della lesione dei rapporti familiari (genitori/figlio e tra fratelli) che godono della tutela costituzionale garantita dagli art. 2, 29 e 30 Cost., lo stesso non si può dire di quei rapporti estranei alla famiglia c.d. nucleare.
Certo è che il ventaglio dei soggetti ai quali viene riconosciuto tale risarcimento è stato via via allargato nel corso degli anni.
In primo luogo, ad esempio, è stata svincolata dal requisito della convivenza che, oggi, non è più elemento necessario per la riconoscibilità del danno. Ed ancora, nel 2011, la Cassazione ha considerato risarcibile il danno patito dal concepito nato successivamente alla morte del genitore (Cass. Civ. 9700/2011); o ancora, con la sentenza n. 8037/2016 la Cassazione ha affermato la risarcibilità del danno da perdita del rapporto parentale subito dal convivente more uxorio conseguente alla morte del figlio unilaterale del partner qualora “sia dedotto e dimostrato che sussistesse con la vittima un rapporto familiare di fatto, che […] consiste in una relazione affettiva stabile, duratura, risalente e sotto ogni aspetto coincidente con quella naturalmente scaturente dalla filiazione”; infine, on un’ordinanza dell’agosto 2018, la Corte di Cassazione è arrivata a riconoscere il danno da perdita del rapporto parentale addirittura tra due soggetti entrambi in vita (Cass. Civ. n. 20825/2018).
IL CASO IN ESAME: “FRATELLI GERMANI E UNILATERALI”
Nella fattispecie in commento la Corte ha rigettato i motivi del ricorso presentato dal Ministero della Difesa e dal Ministero dell’Interno avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia che li condannava al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dalla vittima e trasmessi iure hereditatis, nonché quelli patite iure proprio per la perdita definitiva del rapporto parentale, in favore della madre, dei due fratelli germani nonché, dell’unico fratello unilaterale della vittima.
A tal proposito, il PM aveva prodotto una requisitoria scritta con la quale chiedeva l’accoglimento del secondo motivo di ricorso prospettato dalla difesa quanto alla liquidazione del danno da lesione del rapporto parentale a favore del fratello uterino (perché figlio di secondo marito): ciò sia perché il legame di fratellanza con il deceduto era unilaterale ma, soprattutto, perché tale legame con la vittima all’epoca dei fatti non era accompagnato da convivenza; le sue condizioni non potevano, quindi, essere equiparate a quelle degli altri fratelli (germani).
Il motivo veniva ritenuto infondato in quanto, secondo la Cassazione il vincolo di sangue non è un elemento imprescindibile ai fini del riconoscimento del danno da lesione del rapporto parentale, dovendo “esso essere riconosciuto in relazione a qualsiasi tipo di rapporto che abbia le caratteristiche di una stabile relazione affettiva, indipendentemente dalla circostanza che il rapporto sia intrattenuto con un parente di sangue o con un soggetto che non sia legato da un vincolo di consanguineità naturale, ma che ha con il danneggiato analoga relazione di affetto, di consuetudine di vita e di abitudini, e che infonda nel danneggiato quel sentimento di protezione e di sicurezza insito, riferendosi alla presente fattispecie, nel rapporto padre figlio” (Cass. 21/08/2018, n. 20835).
IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA SUPREMA CORTE
“La giurisprudenza di questa Corte (cfr. tra le pronunce più recenti: Cass. 11/11/2019, n. 28989; Cass. 08/04/2020, n. 774) dimostra la ferma convinzione che il danno derivante dalla sofferenza per la morte ex delicto del congiunto non è rigorosamente circoscritto ai familiari con lui conviventi al momento del decesso, che la cessazione della convivenza non è elemento indiziario a sorreggere da solo la congettura di un automatico allentamento della comunione spirituale tra i congiunti (fratelli e sorelle), con conseguente riduzione della sofferenza dei superstiti a livelli immeritevoli di apprezzamento giuridico, che il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto, escludendoli automaticamente, in caso di insussistenza dello stesso”.
Dunque, il giudice è tenuto a verificare, caso per caso e in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussista il profilo del danno non patrimoniale subito dal prossimo congiunto e, cioè, l’interiore sofferenza morale soggettiva e quella riflessa sul piano dinamico – relazionale, nonché, ad apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti ed ogni altra circostanza del caso.
Applicando tali principi la Corte d’Appello aveva riconosciuto la ricorrenza del danno parentale subito dalla madre e dai fratelli della vittima e lo aveva quantificato tenendo conto di tutti gli elementi acquisiti.
In conclusione: si rileva la portata innovativa della pronuncia sopra indicata la quale potrà avere importanti risvolti pratici in una materia che, comunque, risulta essere in continua evoluzione ed ampliamento.

Dott.ssa Nicoletta Scornavacca